Il controtransfert con i giochi di primo grado è accessibile ponendo attenzione ai pensieri consci e agli stati emotivi. Il terapeuta si accorge che qualcosa non quadra. Per esempio, nel gioco “Perché no…Si ma” (PNSM) il terapeuta sarà consapevole della sensazione di disorientamento e di sconfitta.
Una volta che individuiamo lo stato emotivo, i processi cognitivi possono essere usati per
comprendere il pattern di gioco e formulare un intervento, collegando le dinamiche attuali con il passato del cliente. Oppure, come Berne (1961) afferma, “Il dramma vitale presente deve essere pertanto riportato alle sue origini storiche in modo da permettere che il controllo del proprio destino passi dal Bambino all’Adulto, dall’inconsapevolezza archeopsichica alla presa di coscienza neopsichica” (p. 118).
Novellino (1984) evidenzia che il passo cruciale nel lavoro con il controtransfert è “il permesso di avere un controtransfert” (p. 65). I sentimenti del terapeuta possono offrire l’insight sul proprio copione e sul ruolo complementare non riconosciuto all’interno del copione del cliente. Dallo stile del terapeuta e dalla sua creatività dipenderà come il terapeuta poi userà questa informazione.
Janet
Janet era uscita da un matrimonio in cui lei si era sentita vittima per oltre 20 anni, ma ora a 60 anni, lei si sentiva cronicamente depressa. Un lungo, lento gioco si realizzò tra noi nel quale ogni mio intervento finiva in un cul-de-sac di negatività, un vicolo cieco. Janet descriveva le interazioni dove gli altri apparivano freddi e indifferenti. Sentiva la vita ingiusta. Mi raccontò qualcosa di simile circa il suo passato in un ambiente familiare che assomigliava ad un frigorifero emotivo. I miei interventi erano generalmente infangati con confutazioni e sospiri pesanti: “Capisco cosa intendi, ma…” (non è così attualmente).
Con il senno di poi, posso riconoscere che ero determinata ad aiutare Janet, perché sentivo che era stata delusa dalla nostra categoria professionale quando il suo precedente terapeuta aveva concluso bruscamente la terapia a causa del suo trasferimento lavorativo. In seguito a questa perdita, Janet si sentì devastata e tentò il suicidio. Si avvicinò a me per cominciare da capo, sentendosi sia disperata che terrorizzata da un eventuale altro abbandono. Inconsciamente decisi di dimostrare la mia competenza a Janet e probabilmente il mio valore ad una madre interiorizzata. Mi feci agganciare nel mio copione fin dall’inizio. A causa della mia testardaggine e della paura di Janet di un’esperienza già vissuta, il modello del gioco si è prolungato.
Per ironia della sorte, le cose hanno cominciato a smuoversi quando ho cominciato a sentire e ad accettare un senso di sconfitta. A quel punto mi sono resa conto del gioco “Perché no…,Si ma”, rendendomi conto che mentre stavo ostinatamente cercando di aiutare Janet, lei aveva inconsciamente deciso di sconfiggermi, ricreando la sua esperienza di bambina con sua madre inflessibile. Ho cominciato a vedere che la negatività incessante di Janet formava un fossato che non potevo attraversare, evocando in me la sua esperienza di bambina sconfitta. Poiché mi stavo comportando da ostinata, sono stata lenta ad accettare ciò che stavo provando.
Berne (1964/1996) evidenzia che il gioco “Perché no…,Si Ma” è essenzialmente un gioco che
emerge da conflitti che terminano con una resa. Ho dovuto scoprire questa battaglia con la resa in me stessa ed infine stabilire cosa fare prima di potere facilitare l’accettazione da parte di Janet degli aspetti dissociati di se stessa. Quando sono stata in grado di contenere entrambi i ruoli del dramma nella mia mente - il sentimento di sconfitta e la mia testardaggine, la mia determinazione a senso unico per essere una buona terapeuta - siamo state capaci di risolvere l’impasse. Commenti come, “Mi chiedo se mi stai spingendo a fare quello che tua madre ha fatto con te” ha destato curiosità e una nuova prospettiva in Janet. Piuttosto che investire la sua energia nello sconfiggermi (un’opzione più sicura al posto di rischiare speranza e benessere), ha cominciato a fare emergere nel lavoro pezzettini di una speranza reale.