REPORT DEL SEMINARIO CINEMA E PSICOPATOLOGIA DEL 6 GIUGNO 2018 ¨IN DIALOGO CON VITTORIO LINGIARDI¨, DI FIAMMETTA QUINTABÁ
Anche quest'anno, il 6 giugno scorso, si è tenuto a Roma il seminario annuale diCinema e
psicopatologia organizzato da EleutheriAT. A condurre il lavoro di lettura del film dal punto di vista della psicopatologia è stato il prof. Vittorio Lingiardi, psichiatra psicoanalista, docente di Psicologia Dinamica alla Facoltà di Medicina e Psicologia di Roma “La Sapienza”.
Il lavoro seminariale è stato aperto dalla dott.ssa Antonella Fornaro, presidente di EleutheriAT, che, subito dopo il saluto di benvenuto al prof. Lingiardi, ha spiegato le motivazioni della scelta di utilizzare il racconto cinematografico come modalità didattica sperimentale per la lettura degli stati e dei vissuti psicopatologici. L'immersione nella storia e nelle atmosfere del film, sottolinea Fornaro, permette allo spettatore di percepire in modo più efficace l'emergere dei microprocessi relazionali messi in atto dai protagonisti, così come di entrare in una risonanza più coinvolgente con i sentimenti e i vissuti da questi espressi.
L'accesso allo spazio emotivo, drammatico e relazionale aperto dal racconto filmico, infatti, offre la possibilità di una duplice conoscenza: quella che porta a riconoscere l'esperienza affettiva e mentale dei personaggi, sentendo contemporaneamente la propria reazione interiore e avendo una propria rêverie rispetto a quanto visto. Il passaggio tra l'essere dentro e fuori la storia, tra l'essere dentro in risonanza con i personaggi e fuori nel proprio sentire e viceversa, aiuta a cogliere i significati utili alla comprensione psicologica ed esistenziale del senso espresso dalla trama del film, dalle sue immagini, dai suoni che le accompagnano e dai suoi personaggi.
Lingiardi ha proposto la sua riflessione indicando la similitudine esistente tra ciò che accade con il paziente e ciò che avviene nel rapporto con il film. La possibilità di “osservare partecipando” - come suggerito da Sullivan - è per Lingiardi la caratteristica forte di questa modalità didattica che può essere chiamata a ragione “esperienza” formativa. Quindi il film diviene simile a un setting analitico che permette di muoversi tra le ipotesi di diagnosi, l' osservazione dei personaggi, i loro processi relazionali e la risonanza emotiva dell'osservatore con una libertà che il rispetto della persona in unsetting reale non renderebbe possibile.
In tal senso le libere associazioni su quanto visto emergeranno più apertamente aprendo lo spazio alla dinamica e alla connessione tra vissuti e percezioni dell'osservatore e le identificazioni oggettive dei processi psicologici osservati. La lettura degli aspetti psicologici e la diagnosi a loro collegabile viene in tal modo realizzata non solo attraverso la descrizione dei tratti o delle dimensioni definite dai manuali di psicopatologia, ma anche attraverso l'espressione poetica e letteraria, dove lo sguardo e il contatto rispetto a ciò che attiene all'umano sono resi in modo più pregnante e coinvolgenti.
Il film scelto per questo seminario, inoltre, secondo Lingiardi, ci porta in una storia dove il dentro e il fuori hanno una presenza sostanziale sia rispetto alla situazione narrata, sia rispetto ai suoi risvolti più profondi. Il film proiettato è stato The room del regista Lenny Abrahamson (2015), un'opera molto intensa che racconta la storia veramente accaduta di una ragazza sequestrata, abusata e tenuta prigioniera dal suo rapitore per cinque interminabili anni. In questo periodo la ragazza ha un figlio che lei
amorevolmente cresce nell'angustia della piccola stanza dove entrambi sono rinchiusi. La mamma cerca di sostenere e di proteggere come può il suo bambino costruendo per lui un mondo accogliente a misura di “stanza” e tenendolo lontano dal contatto con l'abusante. Arriva comunque il momento in cui la donna sente l'urgenza improrogabile di evadere dalla stanza, avendo colto istintivamente il limite ultimo raggiunto per la sopravvivenza psichica di entrambi e l'imminenza di un'ulteriore possibile violenza da parte dell'abusante che incombe sul bambino. Lei sente che per suo figlio - a cui per proteggerlo ha descritto una realtà diversa da quella effettiva: il fuori non esiste, vera è solo la stanza - diventa vitale lasciare quella prigionia e perciò tenta il tutto per tutto in un'accelerazione che spezza l'immobilità del tempo e dello spazio vissuti sino a quel momento.
La madre racconta al bambino che cosa c'è davvero fuori dalla stanza, oltre il lucernario unico contatto visivo con un fuori insieme al topolino penetrato chissà come nella stanza e che egli ha trovato. Gli racconta di questo mondo esterno così diverso da come gli aveva insegnato e a cui il bambino stenta a credere. Cerca così di prepararlo come può all'impatto con la realtà del mondo, poiché sarà lui da solo a uscire dalla stanza per chiedere aiuto. Lo stratagemma escogitato per la fuga riesce fortunosamente anche grazie alla capacità di resilienza del bambino, catapultato nella giostra vorticosa di percezioni e sensazioni suscitate dal contatto improvviso con la realtà esterna, e alla provvidenziale capacità di ascolto sensibile di chi lo soccorre.
Una volta liberi, madre e figlio iniziano un difficile percorso di elaborazione della situazione violenta vissuta. I sentimenti di rabbia e di angoscia a lungo ingoiati per lei, il contatto con una realtà nuova a cui abituarsi per lui, il riconoscersi come persone vicine ma separate sono passaggi ardui, dolorosi da attraversare, ma necessari per la nuova nascita di entrambi come persone libere, intime, ma non confuse. L'uscita dalla stanza si compie definitivamente quando questa separazione avviene anche a seguito dell'esperienza di uno strappo drammatico: la madre tenta il suicidio.
La forza del legame e la resilienza del bambino riparano quello che serve a vivere e lasciano andare ciò che non serve più. Egli, per un breve ma intenso momento, diviene il genitore di sua madre. La crisi è riassorbita anche con l'aiuto di persone care intorno a loro, cosicché per ambedue si danno la possibilità e il diritto di conoscere una vita non claustrofobica. Ormai sono fuori dall'immagine della stanza rimasta impressa ancora nella mente, ma ormai forse divenuta impotente. L'ultimo saluto che i due danno alla stanza segna il tragitto compiuto per chiudere con il trauma vissuto. La porta è aperta, il cammino della vita può continuare.
Il breve racconto della trama del film, inevitabilmente, non rende conto di tutti gli aspetti, i processi relazionali, i passaggi esistenziali mostrati con finezza e sensibilità dal regista del film, ma forse aiuta a comprendere qualcosa dell'atmosfera che si è venuta a creare tra i partecipanti al seminario dopo la proiezione. Un'atmosfera palpabile, intessuta di emozioni e pensieri sospesi, condivisi anche nell'iniziale silenzio di tutti, come accade quando insieme s'incontra qualcosa che riesce a dare parole e profondità a ciò che in quanto persone ci riguarda e ci specchia.
Inserendosi sintonicamente in questo denso clima di gruppo, Lingiardi propone di condividere le parole importanti che risuonano nella mente di ognuno a seguito del racconto filmico. L'impressione più immediata, per lo meno in chi scrive, dopo l'ascolto
delle parole espresse è quella per cui avevano anch'esse un “dentro e un fuori”: un dentro legato alla partecipazione emotiva a quanto visto e vissuto attraverso il film, una partecipazione in cui per ciascuno hanno risuonato anche i propri vissuti personali; un fuori dove la consapevolezza della differenziazione tra sé e l'altro aiuta a individuare gli aspetti e le dinamiche salienti dei processi psichici osservati.
Le parole sono state: legame, attaccamento, ancoraggio, salutarsi e stare insieme nessuno è forte da solo, nessun uomo è un'isola, buona mamma, intimità, separazione, abuso, trauma, angoscia, fantasticare, resilienza e resistenza, dentro /fuori, libertà. Esse non sono state pronunciate in questo ordine, ma sono state poi così ordinate da Lingiardi quasi a definire la linea dei vissuti interiori dei personaggi durante il loro cammino interiore di sopravvivenza, di uscita e di trasformazione, man mano che davano impulso alla loro storia.
Nel fronteggiare la devastazione del trauma il forte legame di attaccamento e di intimità esistente tra madre e figlio è stato la fonte di ancoraggio alla vita e alla sopravvivenza per entrambi. La buona madre è riuscita a sostenere il proprio bambino dentro una situazione estrema di abuso, così come la stessa presenza del figlio, sia dentro la prigione angosciante che fuori nella realtà, dove il peso della violenza subìta le è precipitato addosso, ha dato alla madre stessa la forza e la possibilità di resistere alla tossicità di quanto vissuto.
La dissociazione come difesa della psiche dal trauma della violenza che impregnava la stanza ha attutito per entrambi l'impatto con la condizione di vita claustrofobica e disumana cui erano costretti. “Se non ci pensi non fa male” era la loro regola per sfuggire al male. E l'uso della fantasia per ridescrivere la realtà è stato il modo fondamentale per rendere sopportabile l'isolamento e per dare alla mente immagini e spazi dove rifugiarsi. La fantasia ha costruito storie e significati, senza i quali il vuoto avrebbe avuto il sopravvento. L'intuizione della madre circa il tempo giusto per provare a fuggire dalla stanza, prima che il bambino rischiasse di rimanere mentalmente intrappolato nei confini della fantasia e di subire altre violenze, parla ancora del profondo legame tra i due, di un'intimità così forte che porta a sentire l'altro come sé. La forza positiva di questo legame fra i due è anche ciò che sembra sorreggere da dentro il bambino mentre si trova esposto senza mediazioni al fuori, alla realtà molto più vasta e complessa rispetto a quella raccontata e creduta nella stanza. La sua resilenza naturale del piccolo è nutrita da questo affetto, una resilienza capace di accogliere e dare fiducia alle altre presenze sensibili e amorevoli incontrate. Tutto ciò sembra guidarlo, in seguito, anche nel processo di separazione e differenziazione dalla madre. Il percorso, infatti, è duro per entrambi: la madre divenendo consapevole di aver utilizzato il suo bambino come una parte di sé necessaria per superare l'angoscia della solitudine (non chiede all'abusante di portare via il neonato per lasciarlo ad altri) opera uno strappo drammatico di separazione: tenta il suicidio. Una forma estrema di separazione a cui il bambino reagisce invertendo i ruoli e divenendo lui quello che protegge e sostiene la madre offrendogli in dono la sua coda di capelli per comunicarle la sua forza.
La capacità di attaccamento già sviluppata, permette al bambino di legarsi anche ad altre figure positive, amorevoli ma non simbiotiche, che lo accompagneranno nel lavoro di separazione psicologica dalla madre e insieme alla madre. La caduta nella psicosi per il bambino e nella depressione senza via d'uscita per la madre sono
scongiurate. Questi passaggi impegnativi aprono la via al processo di separazione psicologica che permetterà ad entrambi di superare i traumi e di nascere a se stessi, vivendo in una relazione di reciproco riconoscimento. E' da qui e dal lasciare la stanza dismessa alle spalle che può iniziare la loro libertà di vivere.
Le parole hanno individuato processi psicologici profondi percepiti tra il dentro e il fuori proprio dell'osservare partecipando, così come ci ha indicato Lingiardi guidandoci attraverso l'esperienza di lettura del film. Il metodo che utilizza l'espressione artistica dell'uomo per giungere vicino all'uomo funziona, rendendo possibile l'esperire e il pensare, il sentire e il dar nome a quanto incontrato, grazie anche a delle buone guide che indicano direzioni senza mai sostituirsi a chi cammina con loro. Arrivederci al prossimo incontro.